Seize the Time nasce in Veneto, con l’ambizione di costruire possibili letture della realtà a partire dal territorio. Nell’ultimo anno però – forse era inevitabile – il peso degli eventi internazionali ha più volte fatto passare in secondo piano le questioni locali. Questo è l’ultimo articolo che pubblicheremo prima della pausa estiva. Nelle righe che seguono cercheremo di collegare quello che avviene nella nostra regione con ciò che sta succedendo nel mondo, per mostrare che i piani non sono affatto separati e anche – speriamo – per far emergere qualche riflessione utile in vista delle prossime stagioni politiche.
Iniziamo parlando della destra, la parte politica egemone in gran parte dell’Occidente. Dal 20 gennaio 2025, data di inizio del secondo mandato di Trump, l’evoluzione all’interno della destra statunitense sembra aver ricevuto un’accelerazione. Uno degli elementi più evidenti di questa tendenza neoreazionaria è l’insofferenza verso la democrazia rappresentativa, sempre più radicalmente annientata dai devastanti “ordini esecutivi” del presidente americano. Un altro elemento è dato da un allegro ottimismo verso lo sviluppo tecnologico e gli esperimenti geopolitici, una sorta di accelerazionismo all’americana che negli USA sembra convivere in modo più o meno contraddittorio con le tendenze conservatrici e neofondamentaliste.
Rispetto a Trump la destra europea è più prudente, anche se si può immaginare che alcuni leader europei provino una certa invidia nei confronti della facilità con cui Trump sta spazzando via centri di studi mediorientali e stazioni di monitoraggio del cambiamento climatico attive da decenni nel Paese. In particolare, in Italia la destra al governo rimane legata a un’eredità sostanzialmente neofascista e nazionalista ed è lontana dal libertarismo di destra del secondo Trump. Non ha molto potere in materia economica (lì comanda l’Europa), e a livello di politica internazionale non comprende fino in fondo le scelte di Trump, ma non avendo le forze per proporre una linea diversa le asseconda in un continuo tentativo di mediazione che in realtà è un mantenere il piede in più scarpe. A livello di politica interna tende ad affermare la sua identità di destra principalmente piantando una serie di bandierine: i decreti sicurezza, la difesa a spada tratta delle forze dell’ordine, le zone rosse (ne abbiamo scritto qui e qui), le ingerenze nell’ambito scolastico (vedi le nuove linee guida per l’insegnamento della storia e le limitazioni all’educazione sessuale nelle scuole), in ultima i tagli a storici festival culturali di sinistra, novità degli ultimi giorni che però non va sottovalutata per le sue ripercussioni immediate e a lungo termine.
A livello regionale, le costellazioni politiche assumono spesso una forma un po’ diversa, forse perché più legate alle singole personalità. La destra veneta è segnata da decenni di governo leghista e di discorsi sull’autonomia, e l’eterno dibattito sul terzo mandato a Zaia (ora a quanto pare concluso con un niente di fatto) ne è la prova. Nella narrazione di Zaia, la destra veneta non chiacchiera, ma fa. E infatti la sua propaganda si concentra da sempre sul supposto buon senso, sui successi veneti, sulle eccellenze e le bellezze del territorio, su ciò che porta ricchezza; anche nei comunicati politicamente più “segnaposto” Zaia appare abbastanza ecumenico, e sulla sua pagina Facebook la segnalazione puntuale dei crimini commessi da extracomunitari convive con la celebrazione dell’accoglienza ai bambini di Gaza. È chiaro che si tratta di propaganda – dietro c’è il permanere del solito modello estrattivo a spese del territorio, con la regione sempre in testa alle classifiche sul consumo di suolo e progetti monstre (Cortina, TAV) che si avvicendano nel trasferire sempre più ricchezza all’industria del cemento. Come retorica, però, finora ha raccolto generosi consensi.
Nonostante questo isolamento politico, che potrebbe vacillare dopo le prossime elezioni regionali, il Veneto non è affatto immune alle criticità che emergono a livello nazionale e internazionale, che anzi ultimamente ne mettono in discussione alcuni degli assetti strutturali. Sul piano economico in regione rimane moltissimo lavoro povero, anche a causa delle esternalizzazioni da parte del settore pubblico (ne abbiamo parlato qui) e dell’importanza del turismo, che è uno dei settori peggiori per quanto riguarda l’equa distribuzione degli utili. A ciò si aggiunge una crisi del settore industriale dovuta, tra l’altro, al calo della domanda da parte della Germania, uno dei nostri principali partner commerciali – insieme alla Cina, sulla quale pesa l’incertezza legata ai dazi. Di questo abbiamo parlato qui, evidenziando che questa situazione porta anche l’industria veneta a pensare di riconvertirsi all’industria bellica, nuovo settore di investimento di punta in UE dopo il tramonto del green new deal.
Questa situazione porta al sorgere di diverse lotte sindacali in regione, che hanno trovato posto sul nostro sito (ad esempio qui, qui e qui) accanto alle numerose mobilitazioni per la Palestina, che proseguono dall’anno precedente. Su quest’ultimo punto c’è una considerazione da fare. Rispetto alla situazione che avevamo fotografato nell’editoriale dell’anno scorso (qui), nel corso dell’ultima primavera si è diffusa una nuova sensibilità che ha portato diverse istituzioni europee e perfino il governo tedesco ad esprimere riserve sulle mosse di Netanyahu. Questa nuova sensibilità, creatasi grazie alle lotte dal basso e all’indignazione mediatica di fronte alle atrocità commesse da Israele a Gaza, ha trovato voce anche all’interno di diverse istituzioni venete. In diversi consigli comunali (Verona, Vicenza, Padova) sono state approvate mozioni «per il riconoscimento dello Stato palestinese» – va detto però che, per usare le parole di Éric Hazan ed Eyal Sivan, la soluzione a due stati è ancora un «discorso di guerra». In alcuni collegi docenti, come quello del liceo “Selvatico” di Padova, sono state votate mozioni che evidenziano la gravità delle violazioni dei diritti umani a Gaza e la necessità di un impegno delle istituzioni educative.
Questa fragile presa di coscienza collettiva è stata però messa in crisi a partire dall’attacco di Israele all’Iran il 13 giugno scorso. Di fronte a questa ulteriore violazione del diritto internazionale, anziché parlare di aggressori e aggrediti come per l’Ucraina, gran parte dell’Occidente ha ceduto al peggior senso di superiorità colonialista e ha fatto propria l’affermazione del cancelliere Merz secondo cui «Israele sta facendo il lavoro sporco per noi». Un’affermazione che rieccheggia pericolosamente l’idea di Israele avamposto di civiltà in Medio Oriente proposta già da Herzl, tra i fondatori dell’ideologia sionista.
Sul piano internazionale c’è insomma il rischio di un passo indietro, a causa della capacità del capitalismo di inventare dottrine politiche fluide per normalizzare l’estrazione di ricchezza dalla guerra (vedi qui) e il riarmo che minaccia la pur debole retorica della sostenibilità e dell’economia green. Sul piano locale c’è il rischio che ci si riconverta alla produzione di armi, una scelta che potrebbe invischiare il Veneto nell’economia della guerra per decenni (non è che si possa fare una riconversione industriale ogni pochi mesi). A livello politico, dopo Zaia il Veneto rischia di andare preda di una destra esplicitamente neofascista, alla Donazzan, molto più esplicitamente contraria alle politiche ambientali e favorevole alla difesa dei confini, all’esaltazione delle forze armate, al patriottismo e ai cosiddetti valori della nazione.
Di fronte a questa difficile situazione quale tipo di attività politica, sul nostro territorio, può essere più efficace? È quanto si chiede quotidianamente chi ha deciso di fare della politica attiva una parte importante della propria vita. I movimenti dal basso del XXI secolo si sono aggregati intorno a parole d’ordine multiformi – ecologia, precari, beni comuni, transfemminismo – che, se non hanno dato origine a una trasformazione radicale della realtà, da un lato hanno fatto in qualche misura da argine discorsivo al peggiore neoliberismo, dall’altro si sono ricomposti in uno strumentario concettuale che permette una lettura politica della realtà aggiornata allo stato delle cose. La guerra ora rischia di portare a galla tutte le contraddizioni già evidenziate proprio grazie a questi strumenti di analisi. E rischia di farlo sulla pelle delle persone che già prima erano spinte ai margini della distribuzione della ricchezza.
Di fronte a questa minaccia sembra che ora i movimenti per la Palestina e contro il riarmo siano il campo principale su cui misurare la possibilità di affermare dal basso una lettura della realtà non corrispondente agli interessi economici e gerarchici prevalenti. Parlando delle mobilitazioni universitarie per la Palestina Rima Hassan, europarlamentare franco-palestinese eletta con la France Insoumise, in un suo intervento a Padova ha fatto il paragone con i movimenti contro l’apartheid e la guerra in Vietnam – movimenti che al loro tempo hanno senz’altro avuto un ruolo fondamentale nel cambiare le cose e nello scongiurare scenari peggiori. A questi temi va senz’altro aggiunta una speciale attenzione alla crisi ecologica, che con lo spostamento dei fondi sulla guerra rischia di passare in secondo piano in un momento che richiede azioni urgentissime per mitigare gli effetti di un cambiamento climatico devastante.
Proprio per supportare questi movimenti tramite analisi, studio e approfondimenti Seize the Time continuerà a cercare di porre le domande giuste e a cercare risposte che, pur salvando la complessità delle cose, possano essere comunicate in modo chiaro. Un approccio di studio e di analisi che ci sembra ancora più necessario dopo gli ultimi preoccupanti sviluppi politici. Ci vediamo a settembre.
